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«C’è un po’ di retorica italiana sul fatto che abbiamo conquistato un sacco di soldi». Con mano d’acciaio in guanto di velluto, il commissario Ue italiano, Paolo Gentiloni, manda all’aria anni di mitologia contiana sulla conquista dei fondi del Pnrr.

Una mitologia che oggi è una delle poche armi di campagna elettorale di M5s: abbandonato il disastroso Superbonus, tramontato il reddito di cittadinanza, di medaglie da appuntarsi ne restano pochine, per un partito in affanno nei sondaggi. Gentiloni, titolare degli affari economici europei, sa bene di che parla. E non rivela segreti di Stato: le quote di finanziamento spettanti a ciascun paese, spiega nel libro del giornalista del Corriere della Sera Paolo Valentino, «Nelle vene di Bruxelles», «non sono state negoziate dai capi di governo: sono state ricavate da un algoritmo ideato da due funzionari olandesi». In base a criteri oggettivi che favorivano i paese economicamente più disastrati (fin da prima della pandemia, nel nostro caso). Che fosse stato usato un metodo «matematico» è noto, ma che il commissario Ue lo ricordi, garbatamente ridicolizzando i trionfalismi dell’allora premier grillino, fa scalpore, e crea aspettative (e nervosismo) sul futuro ruolo politico che Gentiloni potrebbe giocare in Italia.

«Sono andato in Europa a battere i pugni sul tavolo, e ho portato a casa 209 miliardi, più di tutti gli altri», è il mantra autocelebrativo ripetuto in ogni occasione da Conte. Falso, ribatte Gentiloni: non solo vuol dire che eravamo quelli messi peggio, ma «l’Italia era il settimo paese in termini di rapporto tra soldi ricevuti e Pil». Una staffilata indiretta (il commissario Ue non cita mai il capo grillino) ma bruciante. Conte si chiude in un offeso silenzio, ma scatena i suoi contro l’ex premier Pd: «Che tristezza la sciatteria con cui sproloquia, solo per danneggiare un’altra forza politica», geme il capogruppo 5S Patuanelli. «Tenta di minimizzare il ruolo di Conte per negare la sua grande conquista», lamenta il vice-Conte Ricciardi.

A masticare amaro è però anche un pezzo di Pd: non solo perchè furono ministri dem (da Gualtieri a Amendola) a gestire la trattativa europea per conto del governo, coadiuvati da diplomatici di rango come Piero Benassi e Maurizio Massari: «Il merito di Conte fu di affidarsi a loro, e tagliare fuori i suoi 5s», ricorda un protagonista di allora. Ma anche perchè in casa Schlein si sospetta che l’uscita di Gentiloni (che poi smorza le polemiche ricordando che ci fu «un contributo fondamentale dell’Italia per arrivare a Next generation Ue») serva a dimostrare che si può trattare con il potenziale alleato 5s senza controproducenti piaggerie e subalternità. Gli uomini di Conte insorgono: «Fu Giuseppe, in duri faccia a faccia, a far recedere la Merkel dal suo veto contro i bond comuni».

La storia narra però che, più dei «pugni» di Conte, furono il lavorio diplomatico di Macron e l’intervento netto dell’arcinemico di Conte, Mario Draghi («Il costo dell’esitazione potrebbe essere irreversibile», scrisse sul Financial Times) a sbloccare l’impasse. Ma si sa, la storia può essere raccontata in modi assai diversi.

 

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